Dopo la sentenza del riesame Salvini sbotta: «Contro la Lega, processo politico senza precedenti»

La schiarita dopo la burrasca? Nemmeno a parlarne. Il giorno dopo la notizia della sentenza del Tribunale del riesame sul caso fondi Lega è, se possibile, peggio di quello prima. Critiche che piovono da ogni angolo dell'opposizione e clima di incertezza che non si percepiva così denso e irrespirabile da anni ormai in casa Lega. Una delle colonne portanti del partito fondato da Umberto Bossi nel 1991 (al 1989 si deve la fusione di sei diversi movimenti in un'unica alleanza), il vicesegretario Giancarlo Giorgetti, solo sette giorni fa disse : «Se ci condannano la Lega chiude». Una sentenza, anche questa, che è ora un macigno dalle parti di via Bellerio a Milano, dove il fedelissimo di Matteo Salvini è chiuso in un silenzio da fortezza assieme ai legali del Carroccio, per preparare la controffensiva, il ricorso in Cassazione.
Uno scossone che ha ovviamente riguardato in primo luogo il capo politico e vicepremier Salvini, che a meno di ventiquattr'0re dalla decisione del riesame ha sbottato, perdendo un po' di quella lucidità sino ad ora trasudata da ogni suo gesto o parola, a conferma che la situazione sta volta è grave davvero e nessuna retorica può ammorbidirla. «È chiaro che cercano di metterci i bastoni fra le ruote. Quello che sta subendo la Lega è un processo politico senza precedenti. Anzi, sì, uno c'è: è successo qualcosa del genere in Turchia, quando a un partito fu sequestrato tutto il patrimonio prima ancora della condanna». Se la prende con le interferenze della Magistratura Salvini, che si trova a scontare gli errori di una classe dirigente quasi del tutto rottamata dal nuovo corso leghista e che rischia di vedere andare a sbattere contro un muro una macchina quasi perfetta, un "mangia voti" di qua e di là che l'avrebbe, con ogni probabilità, portato a dirigere il primo partito in Italia per consensi.
Se l'idea di un nuovo maxi partito in cui convogliare le intenzioni di tutto il centrodestra, con lo zampino di Berlusconi, non è ancora ufficialmente tramontata, e anzi, dopo questa batosta, più d'uno afferma che possa prepotentemente tornare in auge, Matteo resta rigido e non transige sulla scelta del nome. Categorico e ancorato attorno a quella Lega che ha preso al 2%, allo sbaraglio, e ha portato a governare per almeno cento, lunghi, difficili giorni.
Se è arrivata ampia solidarietà dalle parti di Forza Italia e dell'altro alleato Fratelli d'Italia, lo stesso non può dirsi del partner di governo, il Movimento 5 Stelle, trovatosi nella scomoda posizione di non poter rimbrottare le malefatte altrui, in barba al dogma dell'onestà sopra tutto e tutti, vista la delicata situazione del governo in cui le sostanziali differenze con il Carroccio iniziano ad essere molteplici e su diversi fronti (decreto anticorruzione vedasi). Ufficialmente la posizione tenuta da Luigi Di Maio è a metà tra il garantismo, quando dice che «la condanna si riferisce alla Lega di Bossi» e la considerazione di una sentenza «che va rispettata».
A muso duro contro il ministro degli Interni anche il comunicato di Magistratura democratica, l'area di sinistra del Csm, che non ha digerito le accuse di intralcio per fini politici nell'intervento di Salvini e lo attacca parlando di «portata eversiva» delle sue parole contro le toghe.
Incertezza, dubbi e nessun quattrino. È bastata una nuvola, o forse un nuvolone, a portare tempesta dove prima sembrava filare tutto secondo i piani. Chi vivrà vedrà, nel frattempo, dopo cento giorni di governo, la Lega non ha mai avuto tutto questo consenso, seppur senza un euro e con il segretario indagato.