Giallo rivela: il killer di Samanta Fava libero dopo tre anni

Dal settimanale "Giallo"
«L’assassino della mia Samanta si meritava di marcire in carcere per quello che le ha fatto. Invece i giudici l’hanno mandato a casa dopo neppure tre anni per un male incurabile. Una condanna a 25 anni ridotta a un decimo della pena. I veri condannati siamo io e nostro figlio Niko, costretto a vedere il killer della sua mamma mentre fuma sigarette in veranda».
È indignato Maurizio Gabriele, 45 anni, l’ex marito di Samanta Fava, la trentacinquenne scomparsa nell’aprile del 2012 da Sora, in provincia di Frosinone, e ritrovata morta il 20 giugno del 2013 in una villetta a Fontechiari, sempre nel Frusinate. Samanta era stata massacrata di botte dal suo nuovo compagno, Antonio Cianfarani, operaio di 42 anni, e murata viva nella nicchia di una cantina. Per questo atroce delitto l’uomo era stato condannato a 25 anni, ma il Tribunale di Sorveglianza di Roma, il primo ottobre scorso, ha deciso di concedergli i domiciliari. Così Antonio Cianfarani è potuto tornare a casa, dove è affidato alle cure dei genitori, mentre per la famiglia di Samanta si è riaperto il dolore. In esclusiva il settimanale Giallo, con un articolo di Rita Cavallaro, ha raccolto tutta l'indignazione delle vittime e raccontato il caso. Dice Maurizio Gabriele, l’ex marito di Samanta: «È abominevole quello che stanno facendo a nostro figlio Niko, che all’epoca aveva solo 9 anni. Prima ha vissuto l’abbandono, perché per un anno intero Samanta è risultata scomparsa. Poi ha dovuto scoprire che quell’uomo l’aveva murata in cantina. Dopo quell’orribile scoperta, mi aveva chiesto perché Cianfarani avesse ammazzato la madre. E quando dopo tre anni l’assassino è uscito dal carcere mi ha chiesto il perché di questa ingiustizia. Ormai non domanda più nulla. A Niko manca la mamma ed è arrabbiato per questa scarcerazione. Questo dolore se lo tiene dentro».
«Il destino è stato beffardo»
La famiglia di Samanta non può fare niente per riportare il manovale dietro le sbarre. Lo spiega Marco Bartolomucci, l’avvocato di Gabriele: «Come parte civile non possiamo agire in alcun modo. Il processo è finito, c’è stata la condanna e non possiamo intervenire sull’esecuzione della pena. Cianfarani è stato mandato ai domiciliari perché ha una malattia irreversibile e ogni sei mesi viene sottoposto a una perizia medica che, ogni volta, conferma quello che hanno deciso i giudici, ovvero che le condizioni non sono compatibili con il regime carcerario». Aggiunge Gabriele: «Il destino è beffardo, gli avevano dato poco tempo da vivere e invece... Io non ho mai augurato il male a nessuno, ma lui ha ucciso la madre di mio figlio, non ha pagato per quello che ha fatto. Gli posso solo augurare di morire». Per capire meglio cos’hanno vissuto i familiari, torniamo a quel tragico aprile del 2012, quando Samanta sembrava sparita nel nulla.
Trovata grazie a un cane specializzato
A ripercorrere la vicenda è la psicologa Alessia Catracchia, cognata della vittima: «Samanta e Maurizio erano separati. Samanta aveva conosciuto Cianfarani perché lei era andata a lavorare come badante della madre. Anche mio nipote aveva conosciuto il nuovo compagno, ma a parte dei litigi non pensavamo potesse arrivare a farle questo. Il campanello d’allarme suonò il giorno del compleanno di Niko. Samanta amava suo figlio, ma quel giorno non lo chiamò nemmeno per fargli gli auguri. A quel punto capimmo che era successo qualcosa di grave». Dai tabulati telefonici e dalle indagini, era emerso che l’ultima persona ad aver visto viva Samanta era proprio Antonio Cianfarani. Interrogato, il muratore riferì di aver lasciato la donna sotto casa la sera del 3 aprile e di non averla più sentita. Ma la sua versione non convinse gli inquirenti. Messo sotto torchio, Cianfarani era passato dalle bugie ai depistaggi, confessando infine che Samanta era morta. Raccontò che la compagna era deceduta per un malore improvviso e che lui, terrorizzato, l’aveva gettata nel fiume Liri. Prosegue la cognata di Samanta: «È stato terribile, ero al lavoro e al telegiornale dissero che cercavano Samanta nel fiume». I sommozzatori scandagliarono le acque per mesi senza risultati. La svolta arrivò quasi un anno dopo. Mentre Cianfarani si trovava fuori casa in vacanza, gli investigatori ne approfittarono per fare degli accertamenti nella villetta di Fontechiari. Grazie all’incredibile fiuto del cane molecolare Orso, arrivarono nella cantina degli orrori. I poliziotti, abbattuto il muro, scoprirono la tomba della vittima, avvolta in un sacco nero. Continua la cognata della vittima: «Samanta aveva tutte le ossa rotte e il cranio spaccato. È stato Maurizio a doverla riconoscere, ha capito che era lei dai tatuaggi, perché, nonostante fosse passato un anno, il corpo era ancora saponificato». Per Cianfarani scattarono le manette. Poi la condanna a 25 anni e infine la scarcerazione.

«Samanta è stata uccisa tre volte»
La criminologa Antonella Cortese, segretaria generale dell’Accademia Italiana delle Scienze di Polizia Investigativa e Scientifica, è a fianco della famiglia: Dice: «Samanta è stata uccisa tre volte: una volta da quell’uomo, un’altra quando è stata murata e la terza dai giudici che hanno liberato l’assassino. Mi batterò affinché si rivedano le condizioni, ci sono anche alternative ai domiciliari. Mandarlo a casa è stato uno schiaffo alla giustizia, alla vittima e a chi si è visto strappare Samanta. Vogliamo istituire un Nucleo Antiviolenza (Nav) per la formazione continua, volta a usare nel migliore dei modi gli strumenti contro la violenza di genere. Porteremo il progetto in Parlamento e ci batteremo per la certezza della pena e l’abolizione del rito abbreviato per i delitti più cruenti».