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La resa dei conti sulla manovra, Di Maio: «Non arretriamo di un centimetro» e la Lega contesta Tria



Il mini vertice di oggi, forse l'ultimo una lunga serie che ha costellato gli ultimi dieci giorni a Palazzo Chigi, potrebbe essere il ring per la resa dei conti finale sul braccio di ferro che vede contrapposti il ministro dell'Economia Giovanni Tria, da un lato e i vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini dall'altro. Il tema, notoriamente sbandierato da inizio avventura governativa, è legato a quanta e di quanta flessibilità nello sforo dei paletti imposti da Bruxelles potrà disporre l'Italia nella spesa per il 2019. Tema angusto da togliere il sonno agli sfortunati malcapitati che dovranno per forza di cose trovare una summa che sia gradita a tutti. Da un lato il titolare di via XX Settembre che con la frase pronunciata in questi giorni, «ho giurato di fare gli interessi degli italiani», si schiera in tutto e per tutto con il diktat della Commissione europea di non sforare paletti che comprometterebbero ulteriormente una già precaria condizione economica, da ricercare tutta nel rapporto debito/Pil, dell'economia nostrana. E allora 1,6% e non oltre. Dall'altro lato delle barricate invece ci sono i due vicepremier che come un mantra sacrale proseguono l'incessante martellamento, iniziato anni e anni prima di poter anche solo sognare di prendere in mano il governo, che dei limiti, dei «numerini», come li chiama Salvini, se ne curano non oltre un certo punto e parlano di sforare il 2% come noi parliamo del risultato della partita della domenica sera. Visioni inconciliabili, perché una di carattere tecnico e probabilmente di natura "realistica", l'altra politica e propagandistica. Tra le due, per nostra fortuna, si inserisce la politica, nel suo senso più pieno, quello di intermediazione tra le parti. E se non fosse per dichiarazioni che definire forti è eufemistico, basti leggere cosa ha detto il capogruppo leghista alla Camera Riccardo Molinari quando ha candidamente affermato che «se Tria non è più del progetto troveremo un altro ministro dell'Economia», probabilmente la soluzione si troverà con buona pace di tutti che dovranno necessariamente cedere su qualche punto.


Il primo ad alzare la voce e a mettere i suoi di paletti è ancora una volta il capo politico grillino Luigi Di Maio, che se approccia parlando di «differenze di vedute che dobbiamo superare», termina il monologo con un più incisivo monito di «un bivio storico» da cui non è possibile «arretrare di un centimetro né farci ingannare dai numeri: dobbiamo abolire la povertà con il reddito di cittadinanza e dare al Paese le riforme strutturali e gli investimenti necessari per rilanciare la crescita». Insomma, va bene tutto ma il reddito si farà: vedremo.


In quota Lega invece, almeno fino a oggi, le dichiarazioni erano state meno dirette e particolari, seppure appare chiaro che la linea del Movimento sia quella sposata anche dal Carroccio e ben lo evidenziano le parole del segretario Matteo Salvini, che con ironia dice che «i numerini me li gioco a lotto o a tombola. Sforiamo il due per cento per la felicità di milioni di italiani».


Una partita tutta aperta ma che troverà una sua naturale conclusione, qualsiasi sarà la via intrapresa, visto il decorrere dei tempi che stringono per la redazione del Def più discusso degli ultimi tempi. Il ring, come già annunciato, resta quello di Palazzo Chigi, l'arbitro, forse di parte, il premier Giuseppe Conte. La posta altissima. Il mantra sempre lo stesso: tra il dire e il fare c'è di mezzo l'Europa, un mare molto più profondo di quanto non si creda.



di Alessandro Leproux

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