
Condannato a sei anni e dieci mesi per associazione a delinquere. Non sembra lasciare molto spazio ad interpretazioni la formula utilizzata dai procuratori generali Fabio Origlio e Luciana Singlitico nell’appello del processo per il crac del Credito fiorentino ai danni di Denis Verdini, ex senatore di Ala e Forza Italia. Sei anni e dieci mesi di carcere all’ex ambasciatore del centrodestra che Renzi incluse nel “governissimo” e cinque anni e dieci mesi ciascuno agli imprenditori Riccardo Fusi e Roberto Bartolomei.
Per Pietro Italo Biagini, ex direttore dell’istituto bancario, la Corte d’appello di Firenze ha accolto il patteggiamento a tre anni e dieci mesi, dopo che l’ex amministratore di Credito Cooperativo era stato condannato in primo grado a sei anni per bancarotta fraudolenta.
Sono stati condannati anche numerosi membri del Cda e del collegio dei revisori, tutti ad un anno e otto mesi. Tutti i legali di tutti gli imputati, che ora attendono il terzo grado in Cassazione, avevano chiesto l’assoluzione con formula piena.
Uno sconto sulla pena è stato comminato nei confronti dell’imputato Verdini, se si pensa ai nove anni che gli erano stati inflitti in primo grado, in quanto sarebbe stata riconosciuta continuazione tra il reato di bancarotta e la parte del processo che riguarda l’editoria, rendendo racchiudibili i due casi in un’unica richiesta di condanna.
Il procedimento, sempre celebrato a Firenze, si unifica e lega quindi ad un altro crack, quello della Ste, Società toscana di edizioni, del quale Verdini era editore e per la cui bancarotta i pm di Firenze avevano chiesto tre anni di reclusione lo scorso aprile. In quel caso, tra le accuse nel primo grado del processo, fece notizia quella che poneva Verdini al centro di un sistema di finanziamento illegittimo all’editoria che coinvolgeva indirettamente anche la Regione Toscana.
“Non è vero che volevo far fallire la banca. Ho dato tutto a quella banca, prendendola dalle ceneri, l’ho fatta sviluppare, trasformandola in una comunità. Persone con cui sono nato e cresciuto, che sono morte prematuramente, in questo processo sono state sbatacchiate dagli eventi”, avrebbe confidato Verdini in lacrime ai suoi avvocati Ester Molinaro e Franco Coppi.
L’ex senatore era stato rinviato precedentemente a giudizio dai pm per associazione a delinquere, bancarotta fraudolenta, appropriazione indebita e truffa ai danni dello Stato il 15 luglio del 2014. L’accusa era di aver concesso finanziamenti e crediti milionari senza le opportune garanzie, bensì sulla base di contratti preliminari di compravendite ritenute fittizie.
Il regista del “Patto del Nazareno” tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi avrebbe, secondo l’accusa, dato soldi a “persone ritenute vicine” sulla base di “documentazione carente ed in assenza di adeguata istruttoria”.
Secondo la Magistratura, il giro d’affari ricostruito con le indagini condotte dai carabinieri del Ros fiorentino, sarebbe stato pari a “circa 100 milioni di euro”. Tale sarebbe l’ammonare di finanziamenti deliberati dal Cda del Credito i cui membri, secondo quanto ricostruito nell’avviso di chiusura indagini, “partecipavano all’associazione svolgendo il loro ruolo di consiglieri quali meri esecutori delle determinazioni di Verdini”.
L’ex senatore, “sacrificato” dal Pd sull’altare della questione morale sollevata dagli avversari politici dopo le sue numerose imputazioni, sarebbe stato considerato all’interno del Credito fiorentino un “dominus” a cui sottoporre ogni scelta e da cui cogliere ed eseguire qualsiasi tipo d’indicazione. Secondo l’accusa, “Verdini decideva a chi dare, e quanto, mentre gli altri si limitavano a ratificare, senza sollevare alcuna obiezione”, scrivono i pm. A dare il via all’indagine, la relazione dei commissari di Bankitalia, che in 1.500 pagine avevano riassunto lo stato di salute del Credito fiorentino e le varie anomalie riscontrate.
Secondo il collegio dei giudici presieduto da Mario Profeta, che aveva condannato Verdini in primo grado, la gestione della banca è “risultata imprudente quanto ambiziosa, seguita dalla consapevolezza, maturata dapprima dal senatore di Ala e, subito dopo, quantomeno a partire da settembre 2008 anche dal management”, scrissero nelle motivazioni di sentenza, parlando di “un imminente disastro, oramai inevitabile e reso palese dall’ispezione della Banca d’Italia del 2010. Il danno è stato enorme”. Un vero e proprio “modus operandi” sarebbe stato individuato dai giudici, che proseguono affermando: “non si può certo partire dai minimi edittali, salvo porre sullo stesso piano l’amministrazione di una società che distrae la macchina aziendale, percepisce illecitamente compensi, ruba la cassa e crea un danno di poche migliaia di euro e chi, invece, ha posto in essere le condotte precedentemente esposte”. Alessandro Sticozzi